Segretario Confederale

 

Riflessioni ed indicazioni sulle collaborazioni a progetto dopo il 24 ottobre ’05

 

Premessa 

Il 24 ottobre ’05 si conclude la fase transitoria, stabilita dal dlgs. 276/05 (e modifiche successive) che aveva “prorogato”, nell’ambito dell’impiego provato, le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.).

Dopo di quella data, la norma prevede: 

  • o la riconduzione della collaborazione ad un progetto, programma o fase di esso,
  • oppure la trasformazione della collaborazione in uno dei (molti) rapporti di lavoro possibili, subordinati (a termine, part-time, ecc.) o autonomi (partite Iva, ecc).

 

Quello che segue è un primo ragionamento analitico ed operativo per gestire la fase che si apre.

 

Numeri e giudizio sull’esito delle norme del 276/03

 

Prima di una valutazione sul da farsi è utile ricordare come, fin dal Libro Bianco di Maroni la finalità esplicita dell’intera filosofia del governo sul mercato del lavoro di riduzione dei diritti ha “strumentalizzato” l’enorme diffusione delle co.co.co. come prova di una tutela eccessiva sul lavoro, a discapito delle tutele nel mercato del lavoro. Quindi la legge 30 – secondo gli ideologi della destra – si sarebbe resa necessaria per riequilibrare tale quadro, riducendo le prime e rafforzando le seconde.

 

Di qui la proliferazione dei rapporti di lavoro e la sostanziale diminuzione dei diritti previsti nei rapporti preesistenti (part-time, somministrazione a tempo determinato, contratti a causa mista), e lo stesso tentativo di manomettere l’art.18 dello Statuto, secondo l’assunto per cui tramite “queste riforme” si sarebbe potuto ripulire il mercato del lavoro dalle distorsioni prodotte dalla eccessiva tutela di pochi privilegiati, e si sarebbe quindi potuto portare tutti, insiders ed outsiders, ad un livello accettabile di legalità. 

A due anni di distanza possiamo confermare il giudizio dato al momento del varo delle norme: l’unica conseguenza di quel disegno è stata la diminuzione delle tutele per chi lavora e non la riduzione della precarietà esistente (anzi), né l’emersione nel lavoro regolare di chi si trovava a lavorare a “nero”. 

Le centinaia di migliaia di co.co.co. hanno, il più delle volte cambiato solo la propria denominazione, assumendo quella di “collaboratore a progetto”, ma non modificando in nulla la propria collocazione lavorativa. In molti casi si è assistito al ricatto del datore e alla trasformazione dei lavoratori in “partite IVA” o con la sottoscrizione di contratti di associazione in partecipazione (spingendo quindi migliaia di persone “fuori” dall’area del lavoro subordinato ed economicamente dipendente). Oppure ancora si è assistito alla semplice fine del rapporto. Di passaggi al lavoro subordinato se ne contano pochissimi. 

Lo si deduce, del resto, oltreché dalle testimonianze e dai riscontri vertenziali e sindacali, dalle stime, pur contrastanti, del popolo delle co.co.co.. Infatti, che siano 400mila, come stima l’Istat, o quasi un milione come assai più plausibilmente indicano l’Ires e NidIL, in tutte le ricerche condotte il tratto comune è la costanza, quando non l’aumento della popolazione presa in esame; il che significa che è venuta clamorosamente a mancare la finalità del lavoro a progetto, ossia l’opera di scrematura delle false co.co.co. 

L’azione contrattuale 

In tutti i rinnovi dei CCNL intervenuti dopo il 2003 si è difesa la sfera di applicazione del CCNL al lavoro subordinato, evitando di indicare nel CCNL funzioni per le quali sarebbe stato possibile attivare collaborazioni. Si è quindi impedito che un’attività, funzione o professione, previamente svolta in subordinazione, si potesse legittimamente svolgere in modo diverso. Questo è un risultato minimo ma importante, perché può costituire il fondamento di possibili strategie vertenziali e contrattuali di contrasto verso collaborazioni attivate in aree tipiche dell’impresa. 

Va invece indagata con attenzione l’attività di contrattazione di secondo livello, settoriale o aziendale, in cui si riscontrano esperienze di normazione delle collaborazioni, finalizzate tutte al corredare di maggiori diritti persone che si trovavano già a svolgere attività in collaborazione. Si può affermare che tali pattuizioni, in particolare quella tra Assocallcenter e le categorie del terziario (e NidIL per la Cgil), avessero il carattere di un “contratto di emersione” che traguardava alla completa applicazione del CCNL a tutte le forme di lavoro. Che poi la controparte sia implosa e la pattuizione sia divenuta sostanzialmente inesigibile qui non rileva. 

Purtroppo non abbiamo invece adeguata conoscenza del grado di controllo esercitato dalle categorie e dalle RSU sulle diverse forme di esternalizzazione, a volte anche con conferimento di lavoro in collaborazione, su cui invece è urgente fare un’analisi attenta e rigorosa per valutare se ed in che misura le norme “lassiste” della legislazione siano state fonte di ulteriori precarizzazioni. Si può aprire, al riguardo, oggi ed in futuro, uno spazio rilevantissimo per una contrattazione del ciclo aziendale e dei diritti delle persone in esso coinvolte, a prescindere dalla loro relazione di lavoro. 

Aspetti giurisprudenziali: esperienze e indicazioni 

A nostra conoscenza risulta, per ora, una sola sentenza, emessa dal giudice di Torino. Sappiamo tuttavia che altre cause sono sul punto di arrivare a sentenza. 

La sentenza di Torino, anche se da qualcuno definita “troppo facile” per il caso esaminato (un’attività di vendita di contratti telefonici svolta interamente da collaboratori soggetti ad orari, gerarchia tra loro, promozioni e sanzioni), fornisce un criterio molto importante per l’azione di scrematura, e di possibile contestazione vertenziale e sindacale: “l’attività tipica dell’impresa non può essere svolta - afferma il giudice - con forme contrattuali non rientranti nel lavoro subordinato”. Questo principio può essere adottato come pietra angolare di ogni nostro giudizio ed azione conseguente. [Di qui, ad es., l’improponibilità di un’attività che “nasca” solo con rapporti di collaborazione!] 

Di qui anche una serie di indicazioni per l’impostazione delle nostre azioni:

  1. verifica dell’oggetto sociale dell’impresa e congruenza con esso delle funzioni cui dovrebbero rispondere i “progetti, programmi o fasi di essi”;
  2. assenza di forme di eterodirezione nello svolgimento dell’attività del collaboratore, pur sapendo che l’autonomia è componente diffusa nel lavoro subordinato (basti pensare alle declaratorie contrattuali). In questo caso tuttavia, si deve avere a che fare con assenza di eterodirezione, non di autonomia nello svolgimento di una mansione che rientra comunque in un ciclo aziendale su cui non si ha influenza;
  3. coordinamento con l’impresa committente, concetto più difficile da interpretare, che comunque deve essere valutato nella sua accezione più stringente e rigorosa. Ad es. è ovvio che il collaboratore non può recarsi presso i locali aziendali quando essi siano chiusi (coordinamento temporale), ma è escluso che il coordinamento possa diventare una forma in cui ad es. giungano al collaboratore indicazioni o direttive da parte di preposti aziendali sui tempi e sulle modalità di esecuzione del lavoro commissionato.

In altre parole, nella valutazione sulla fondatezza del lavoro a progetto, anziché un improbabile “tertium genus” si deve prendere sul serio la natura autonoma del rapporto, stabilita dalla legge, e trarne le conseguenze con coerenza. 

Le collaborazioni nel lavoro pubblico 

Nel mondo del lavoro pubblico, si assiste ad una situazione specifica e grave: da un lato la legge 30 prescrive l’inefficacia delle norme in tema di trasformazione dei co.co.co. dall’altro il legislatore ha stabilito gli ambiti di ricorso alle collaborazioni nel lavoro pubblico (D. Lgs. 165/01 e D.Lgs. 267/01), (…………). Nella stessa legge 30 è previsto un  riferimento nelle norme finali ad un tavolo presso l’ARAN per “armonizzare” i due ambiti normativi. Quindi le collaborazioni  non solo continuano, stante l’inefficacia della legge,   né hanno quindi bisogno di riferirsi a progetti programmi o fasi di esso, ma  devono, o dovrebbero  invece riferirsi a lavori di alta specializzazione per i quali le  amministrazioni non dispongano di organico adeguato. 

Disinvoltamente, nel 2005 la Corte di Conti ha disposto l’inutilità di un suo controllo sul ricorso al lavoro in collaborazione.  Tale modalità, in costanza a) di strette sui bilanci delle amministrazioni locali, b) del blocco reiterato delle assunzioni in tutte le Pubbliche Amministrazioni,  è stata spesso il modo con cui da parte di queste si è fatto fronte alle esigenze, violando i criteri contenuti nei citati decreti legislativi, creando nei fatti un vasto mondo “senza diritti e senza neppure i vincoli che la stessa legge 30 pone alle collaborazioni lì definite. 

Si pongono qui le ragioni che motivano una diversità d’azione rispetto al privato, che si propongono di seguito,. La situazione in essere, già grave per quanto sopra detto, è aggravata dalle disposizioni pesantemente restrittive del DDL di legge finanziaria per il 2006 (meno 40% rispetto alla spesa del 2003!) che rischia di provocare almeno 80.000 licenziamenti o interruzione di contratti.Come procedere? 

Innanzitutto con un forte contrasto al contenuto della legge finanziaria sia in relazione al taglio sia alle sue conseguenze, che determinano una situazione che rischia di penalizzare ancora più pesantemente il lavoro precario rispetto a quelle modalità assunzionali che hanno caratterizzato un sistema “programmaticamente” fuori del dettato costituzionale.  

Affermando altresì come  i servizi ex art.117 Cost debbano essere svolti dalle amministrazioni con personale a tempo indeterminato- individuando questa soluzione in un apposito provvedimento legislativo o in un tavolo negoziale possibile, identificando lì quali funzioni possano essere svolte con lavoro a tempo indeterminato o quali  gli ambiti di attività per le collaborazioni, individuando altresì i diritti per questi lavoratori; in sede di singola amministrazione va  poi condotto un esame rigoroso dello spaccato esistente e, alla luce anche del quadro risultante dai punti precedenti, posto il problema del percorso necessario per la stabilizzazione delle collaborazioni (e delle altre forme precarie) in essere. 

E’ ovvio che un simile complesso di obiettivi necessita anche di un quadro legislativo adeguatamente, e profondamente, rinnovato. 

Futuro, nostri orientamenti e quelli altrui 

E’ chiaro come sulla figura, e sui diritti, del co.co.co. si giocherà molto del disegno riformatore in materia di lavoro, specie se si dovesse registrare un cambio di maggioranza nella prossima legislatura. 

Segnalo qui la coerenza dell’impostazione della Cgil, che fin dalla elaborazione delle quattro leggi di iniziativa popolare ha posto al centro della propria battaglia non solo la resistenza ai disegni altrui (o la difesa dell’esistente), ma assai ambiziosamente la riscrittura del concetto di subordinazione, volendovi ricomprendere tutte le forme di lavoro che avvengono in ambito di “dipendenza economica” verso terzi, e attribuendo all’area così definita i diritti ( ed i costi conseguenti) oggi in capo al solo lavoro subordinato.

Questa resta, come affermato anche nel documento congressuale al vaglio degli iscritti, il cardine della proposta che la Cgil avanza per risolvere l’anomalia delle co.co.co., ed è rispetto a questo che vanno valutate le diverse ipotesi in campo. 

In tale ambito merita attenzione la posizione avanzata recentemente da esponenti del Centro Sinistra, che si sono sempre dimostrato scettici sull’impostazione nostra: essi hanno proposto di procedere ad un’equiparazione dei costi previdenziali tra lavoro in co.co.co. e subordinazione, ravvisando correttamente in questa differenza (attualmente di 14,2 punti percentuali, a regime di 13 punti a parità di compenso erogato, cosa comunque assai rara per non dire mai realizzata) la ragione profonda dell’incomprimibile esistenza della dimensione delle co.co.co. in Italia.  Molto si potrebbe dire sulla soluzione proposta, a cominciare dall’aleatorietà delle indicazioni su quale aliquota contributiva ci si dovesse eventualmente attestare. E’ importante però che anche nell’Unione si stia affermando il concetto della necessaria parità di costi tra lavoro subordinato e altre forme di lavoro (se non addirittura di una maggiorazione, in prospettiva, di queste ultime, anche al fine di scoraggiarne il ricorso a fronte di vantaggi normativi che persisterebbero).

Riassunto operativo 

  • i CCNL non dovrebbero ammettere attività svolgibili in collaborazione;
  • la contrattazione dovrà vigilare e controllare con attenzione le forme di esternalizzazione, includendo in esse le attivazioni di collaborazioni;
  • le collaborazioni dovranno riguardare attività non tipiche dell’impresa, essere svolte in assenza effettiva di direzione dell’impresa committente e con le sole forme di coordinamento compatibili con la natura autonoma del rapporto di collaborazione
  • laddove si sia in presenza di elementi per una fondata possibilità di contenzioso esso va attivato con sollecitudine, facendo naturalmente attenzione ai rischi di una giurisprudenza sfavorevole ed ai rischi cui potremmo esporre le persone coinvolte;
  • va quindi perseguito il massimo di coordinamento e di scambio di notizie, informazioni, sentenze, ecc. tra uffici vertenze, uffici legali, categorie e il Dipartimento Politiche attive del lavoro per garantire il massimo di efficacia delle iniziative;
  • per il lavoro pubblico va condotta un percorso complesso di attività legislativa, negoziale e vertenziale che punti alla stabilizzazione delle co.co.co. in essere, e all’identificazione di ambiti di svolgimento delle collaborazioni e diritti dei lavoratori impegnati;
  • occorre attrezzare infine gli uffici vertenze e le Camere del Lavoro in vista di possibili (e prevedibili) casi di lavoratori in co.co.co. che, in prossimità od oltre il termine del 24 ottobre, si trovino o no di fronte alla richiesta di trasformazione del loro contratto, in collaborazioni a progetto o altro.

Roma, ottobre ‘05